Ossessione, ecco cosa è diventato. Una Ossessione. Di quelle con o-SESS-ione in maiuscolo, di quelle per cui tutti ti deridono e ti reputano infantile. Nessuno come me ha mai capito il vero senso del colpo di fulmine!
Di cosa sto parlando? Di Thor. Lui è la mia Ossessione.
Quando il cielo si rabbuia e la pioggia scende copiosa, quando si squarcia con la luce interrotta dei lampi, ecco io fremo. Guardo in su e, trepida, aspetto. Resto imbambolata con il mento rivolto verso l’alto, incurante delle gocce che mi rendono un mare, perché non posso perdere neppure un angolo di cielo, Lui potrebbe arrivare.
Lui, il Dio nordico con la chioma fluente color del sole, l’armatura di squame argentate, le possenti forme, il mantello a far da ali. E il martello. E che martello! Il Mjolnir. Vorrei essere degna di poterlo impugnare almeno una volta, anche solo per un istante (ma anche due, vah!) e usare quella magnifica arma per poter assestare un colpo secco, preciso, che faccia frantumare dentro di me le insicurezze e le paure. Altro che Miley Cyrus in wrecking ball. Proverei quello che non ho mai provato: essere finalmente me stessa.
Viaggerei trasportata sull’arcobaleno, vagando fra i nove regni fino a giungere al cospetto di Odino, fasciata in vesti di seta rossa, piena di una pulsante femminilità guerriera. In ginocchio davanti al padre degli Dei.
Andrei nella locanda a bere un aspro succo da un boccale di creta color terra bruciata, circondata da guerrieri e ragazze scudo, camicie con lacci incrociati che lasciano intravedere muscolosità inaspettate. Tutti sorridono, ebbri di vita. Lui, Thor, è lì al mio fianco.
Un tuono mi ri-sbatte sulla Terra.
Dal cielo la pioggia continua a flagellarmi.
Chiudo gli occhi, stretti come se dovessi scacciare un demone dallo sguardo. Mi concentro. Voglio tornare indietro, voglio tornare ad Asgard.
Nulla, ormai non sento più nulla. Nemmeno un fulmine a ciel sereno. Solo gli uccellini che intonano una melodia. È la fine. Non scendono più le gocce, attraverso le palpebre scorgo un cambiamento di luce. Stringo ancora più forte, ma capisco che è la fine. Tra le nubi ormai scariche filtrano i colori dell’arcobaleno. Forse riesco ancora a salirci sopra. Apro gli occhi e allungo una mano. Troppo distante. Non posso afferrarlo, devo lasciarlo andare.
Dentro di me il vuoto, quel vuoto che si prova davanti a un tramonto, un vuoto che fa male, riempie di quella gioia che dura un attimo e poi svanisce.
La prossima volta arriverà. Quando mi vedranno abbracciata a Thor mentre cavalchiamo l’arcobaleno nessuno potrà più deridermi o credermi pazza, solo perché giro con un parafulmine in testa.
Enrica Beggi
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