“Senza pace, senza tregua, mi sposta senza rispetto per la mia vita; come fossi un soprammobile! Ora mi ha messo accanto questo incommentabile Inglese. Vicino a me, a me che mi sono buttata sotto a un treno per via della mia regale praticità: il treno della mia vita era passato, di aerei nemmeno l’ombra e in stazione non c’era gente di mio gradimento”. Questo borbottava Anna Karenina, mentre Emme la risistemava all’interno della propria libreria. A Emme capitava sempre così: quando non riusciva a mettere ordine nella propria vita, la metteva in quella altrui. Ossessivamente.
In quel pomeriggio, con una temperatura primaverile a dispetto di una emotività del tutto invernale, aveva ritenuto opportuno far incontrare la gran dama russa con il Dr. Jekyll, sperando che questi le potesse finalmente insegnare la lezione che a stento lei stessa riusciva a ricordare: non esistono né prìncipi, né princìpi. E nel disperato caso in cui esistano i primi, sono bipolari, come d’altronde Jekyll aveva iniziato a palesare ad Anna: “L’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due. E forse anche voracemente”.
Poco più in là, Emme si ritrovava con Lolita in mano, oltre che con qualche brandello di cuore. Quel libro le aveva insegnato tre cose essenziali: la prima è che esiste chi ti spezza solo il cuore e chi anche la vita, la seconda è che tutte le ragazze, a prescindere dalla propria età, sognano di fare interminabili giri su se stesse con delle ampie gonne di voile di seta e che le più viscerali storie d’amore sono storie di un’assenza. E così si sentiva affine a Humbert: “Sopravvivere al fuoco dei propri lombi, al proprio peccato originale?” si chiedeva se e come fosse possibile. “Amore a prima vista, a ultima vista, a eterna vista” le rispondeva Lolita, e più che una risposta le sembrava una minaccia. Si decise, dopo molto riflettere, a metterla vicino al Maestro e a Margherita: per Emme, Humbert aveva bisogno di frequentare le ombre, dopo così troppa luce. E Woland, assiso sul proprio trono, in un impeccabile abito da smoking, già rimbrottava il suo nuovo vicino malconcio: “Sciocco: pensare di poter godere della luce nuda delle persone, delle cose, senza mai mettere in conto l’ombra. Humbert, smettila di pensare, di contemplare, guarda solo ai fatti. I fatti sono la cosa più ostinata del mondo”. Colpi di frusta sulla pelle diafana di Emme, dubbiosa se fossero di tortura o di sprone: il confine le era sempre parso molto labile. Ma di quel libro le piaceva, soprattutto, il capitolo XXXII “Il perdono e l’eterno rifugio”; queste parole la cullavano: “La viltà è il vizio più grave. Ma, Margherita, non devi inquietarti. Tutto sarà giusto, su questo è costruito il mondo.” Quanto detto da un demone accarezzava i demoni di Emme, ormai alle prese con l’ultimo libro: si sciolse i capelli, incendiò l’aria e la “Musica per organi caldi” del buon vecchio Charles B. le sembrò l’unico finale possibile, il solo che le riuscisse davvero bene.
Martina Del Castello
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