Qualche giorno fa ho avuto il piacere di presentare a Bologna il libro di Alessio Dimartino “C’è posto tra gli indiani” (Perrone Editore, Roma 2014). ed è stato davvero un grandissimo piacere: fondamentalmente perché è un bel libro, pensato, ma soprattutto scritto, molto bene. Negli ultimi anni ho letto poca prosa italiana contemporanea: non per snobismo, ma per noia, ma devo ammettere che questo bel lavoro mi ha ridato qualche speranza.
Come dicevo è un libro scritto molto bene: quindi non aspettatevi né quei virtuosismi barocchi che sembrano tanto di moda, né quell’omologazione da editor invadente che sembra contrassegnare la grande produzione contemporanea. Lo stile di Alessio corre veloce ed accorto raggiungendo, proprio per l’asciuttezza sintattica, il cuore dell’emozione e del pensiero. A questo stile affatto ricercato e per questo godibilissimo si aggiunge una struttura non complessa ma intrigante, difficile da maneggiare, ma che Alessio ha domato facilmente: insomma questo ragazzo ha dichiarato un triplo carpiato con doppio avvitamento.. e l’ha fatto, e pure bene!
Non credo di essere più in grado in poche parole di riassumere il filo narrativo di questo romanzo, ve ne darò però gli ingredienti: un veterinario demotivato sull’orlo del suicidio, un cane abbandonato per sbaglio, una vecchia fidanzata mai dimenticata ed una miriade di altri personaggi: mai indispensabili, ma sempre fondamentali.
Alessandro: Parliamo della struttura del romanzo: la scelta di ambientare tutto in una notte è una scelta molto forte che comporta anche alcune difficoltà… Quale è la motivazione?
Alessio: Bè, in realtà l’unità di luogo e tempo è circoscritta solo all’apparenza. Tramite dei frequenti flashback e le sezioni in seconda persona sono raccontati ampi stralci della vita del protagonista. La difficoltà di raccontare tutto quello che volevo raccontare in un’unica notte l’ho risolta così. Il motivo è che l’estrema riduzione del campo della narrazione mi ha sempre affascinato. I racconti di Carver, ad esempio. Il nucleo dell’atomo, per intenderci.
Alessandro: Tutti i tuoi personaggi, anche quelli cosiddetti “minori” hanno spessore ed una certa coerenza psicologica… è questa una scelta precisa o una necessità del tuo modo di raccontare?
Alessio: Questo ha a che fare col grande rispetto che provo nei confronti dei miei personaggi. Ognuno avrebbe una sua storia da raccontare che non può essere raccontata, per ovvi motivi. Quindi ognuno merita almeno una pennellata particolare a lui dedicata.
Alessandro: Tutti i tuoi personaggi, compreso il protagonista, a causa di un evento non sempre esplicitato, sembrano vivere una vita parallela a quella che dovrebbe essere la loro “vera vita”: è questa una cosa che trovi frequentemente nelle persone attorno a te o hai scritto un romanzo appositamente per queste persone che, azzardo, potrebbero essere gli indiani del titolo?
Alessio: No, non tutte. Questa vita, che potremmo definire ‘svisata’, la vivono solo le persone che hanno la lucidità di capire l’insensatezza del 90 per cento di quello che comunemente si definisce ‘vita’. Almeno per noi occidentali grassi e annoiati. E sono, come giustamente hai rilevato, gli indiani del titolo.
Alessandro: Questo è il tuo terzo romanzo.. in cosa è cambiata la tua scrittura?
Alessio: Sono invecchiato, ho letto molte cose, ne ho vissute delle altre, ne ho capite (o almeno ho creduto di capirne) altre ancora. Tutto ciò si riverbera inevitabilmente nella scrittura. Questo.
Alessandro: Il tuo linguaggio è semplice e diretto, ma acquisisce complessità in una sintassi affatto scontata.. è questo qualcosa su cui hai lavorato o è stato un naturale evolversi del tuo scrivere?
Alessio: Ci ho lavorato moltissimo. La mia prosa è 20 per cento inclinazione naturale, e 80 per cento artigianato. Sono cresciuto tra bar e biblioteche. E lì ho capito che per risultare sulla carta chiaro e incisivo come al bar, devi passare parecchio tempo in biblioteca.
…Simple as that!
Alessandro Brusa e Alessio Dimartino per malacopia
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