Che fine ha fatto Baby Jane? dall’omonimo film di Robert Aldrich, regia Antonio Salines, al Duse di Bologna.
Proprio l’altro giorno mi stavo chiedendo: “ma… che fine ha fatto Sydne Rome?”. Io Sydne(y) Rome, l’attrice che tutti ricordano col nome di una tratta aerea intercontinentale (la battuta non è mia), me la ricordo quando nel 1984 presentava con Maurizio Nichetti il programma Quo vadiz e cantava una indimenticabile sigla del trash italiano “Io amo l’a(mmm)more“… e l’a(mmm)more ama me!
L’avevo lasciata nel bel mezzo di una lezione di aerobica fino all’altro giorno quando, invece di cercare una risposta in un impolverato dvd di mia zia, casalinga farcita di cellulite che negli anni ’80 pensava, mentre girava la passata di pomodoro, di poter buttar giù i fianchi dimenandosi davanti allo schermo con Sidne, sono andato a vederla a teatro, interprete di Baby Jane Hudson nell’immortale “Che fine ha fatto Baby Jane” di Roberto Aldrich.
La storia, come tutti sanno, ruota intorno all’esclalation di follia di Baby Jane che, un tempo diva bambina, ora anziana vive insieme alla sorella Blanche, anch’essa diva ma la cui fama sopravvive nonostante l’età e l’infermità a cui è ridotta a causa di un incidente. Baby Jane si prende cura di Blanche, soggiogata dal rimorso di esser stata lei a ridurre la sorella sulla sedia a rotelle. L’equilibrio si rompe quando Baby Jane cerca un improbabile ritorno alle scene, ma vede Blanche come un ostacolo da rimuovere. È a questo punto che la follia fa precipitare le cose…
A proposito di pazzia: ancor prima di vedere lo spettacolo, ho pensato che servisse pazzia, più che coraggio, per confrontarsi con due mostri sacri come Bette Davis e Joan Crawford in una lotta persa in partenza. Chi non ricorda gli occhi di Bette Davis penetranti e sgranati sul dolore della propria esistenza? E le sue mani rattrappite dal rimorso che si stringono sul corrimano delle scale nella gabbia dove giorno dopo giorno si consuma il dramma delle due donne sole? E il viso deformato in una smorfia d’orrore di Joan Crawford quando la sorella le serve un topo per cena?
Ecco. Tutto questo è il film. Che rivive all’inizio dello spettacolo, quando scorrono su uno schermo alcune immagini del capolavoro targato Hollywood 1962. Ma non fatevi ingannare: se qualcuno andasse a teatro aspettandosi di rivedere il film, commetterebbe un grande errore e non potrebbe che rimanerne deluso. Se volete vedere il film, fate lo sforzo di rimanere a casa vostra e, dopo il tg serale, di traghettarvi dal divano alla mensola per afferrare il dvd e guardarvelo avvolti nel vostro plaid preferito, magari sorseggiando del Vin brûlé. Questo adattamento dall’omonimo film, a firma Franco Ferrini, che per la prima volta va in scena in teatro, è un’altra cosa e bisogna riconoscere alla regia e agli interpreti di essere riusciti a creare di questa storia struggente una versione assolutamente personale, dove l’insania lascia il posto alla solitudine e alla sofferenza di due donne al tramonto.
Di un’intensa sofferenza è pervasa infatti la rappresentazione, una sofferenza a tratti combattuta, una sofferenza che distrugge per lasciare il posto ad una sofferta rassegnazione, una sofferenza insofferente che emerge nella recitazione di Sydne Rome e che viene sottolineata anche dai tempi teatrali e dal contrasto con la pacata compostezza di Francesca Bianco nel ruolo che fu della splendida Joan Crawford. Il tutto in una scenografia accattivante che incornicia in una gabbia dorata i due piani in cui si sviluppa il dramma.
In uscita dal Duse, che tanto ci sta a cuore, ero soddisfatto di aver trovato una risposta alla domanda iniziale: Sydne Rome, come si dice, è viva, lotta e soffre con noi. Vi confesso però di non saper tuttora “Che fine ha fatto Baby Jane”. Rimarrò per sempre orfano inconsolabile della grande Bette Davis.
Marco Melluso e malacopia
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