Se Franco Battiato avesse approfondito la sua conoscenza dell’arabo, noi non avremmo mai ascoltato L’era del cinghiale bianco. Ma meno male che non ci è andato a Tunisi: non solo per l’album in sé, ma perché quel disco rappresenta la transizione del cantautore catanese dalla musica d’avanguardia europea a un genere più pop che non sarà un tradimento, piuttosto un dono (diciamolo, così abbiamo potuto conoscerlo anche noi che della musica d’avanguardia non capiamo niente).
Una passione antica, quella di Battiato per il mondo arabo. Negli anni Settanta, dopo averne studiato la lingua a Milano per tre anni, vinse una borsa di studio a Tunisi. Non ci andò, per scrivere il suo nono album (degli attuali 28, mica nono di dieci): lo racconta lui stesso alla platea napoletana del teatro Augusteo dove si è esibito con il progetto musicale “Diwan: L’essenza del reale”. Non è il solito Battiato (anche perché “solito” è l’aggettivo che meno gli si addice): sul palco un concerto ispirato alla cultura araba. Non una novità neanche questa: tutta la storia del cantautore parla questo linguaggio e per di più questo prodotto artistico era stato già portato in scena nel 2011. Ma chi s’annoia ad ascoltarlo una volta di più?
“Diwan” è la raccolta giunta fino a noi del poeta arabo-siciliano Ibn Hamdis, che visse parte della sua vita in esilio dopo l’arrivo dei Normanni nell’isola (per inciso, il termine “Diwan” ha, tra i tanti, il significato di “dogana” e anche il nostro “divano” deriva da lì). Non solo Hadmis (una sorta di Battiato del Duecento, ma senza esilio, per fortuna), ma anche nuovi arrangiamenti di opere come “Haiku” e “L’ombra della luce”. Lui l’arabo lo conosce, ce lo ha detto e lo sappiamo, ma a dargli una mano sul palcoscenico c’erano Nabil Salameh di Radio Dervish e Sakina Al Azami (oltre alla catanese Etta Scollo, voce e chitarra). Con loro, intonare uno dei capolavori della tradizione medievale arabo-andalusa come “Fogh In Nakhal”, aiutati tutti da un ensemble multietnico, è di sicuro più semplice.
Questi i fatti. Ma davanti a Franco Battiato i fatti sono sempre in secondo piano. Il silenzioso dubbio con cui si varca l’ingresso – “Fosse la volta buona che mi annoio?” – viene spazzato via quando, con rispettosa puntualità, inizia la musica. Anche se ti sfuggono molte parole, non importa: la ricerca, la cultura e le note ti trascinano di colpo nel quartiere di Fener, nella vecchia Istanbul, o in una medina qualsiasi (“Pieni gli alberghi a Tunisi”, ne L’era del cinghiale bianco, appunto) e capisci quanto vicini a noi siano quei luoghi. Tutto il resto è un pubblico che va dai ventenni fuorisede (di cui va ammirato il sacrificio, visto il prezzo non proprio popolare del biglietto) ai professionisti nati come lui negli anni Quaranta. C’è spazio anche per i vecchi successi: dopo quasi due ore, neanche Battiato resiste e intona classici come La cura e L’animale. Il pubblico napoletano gli chiede, neanche a dirlo, Era de maggio: lui tentenna, non è sicuro di ricordarla per intero, ma poi esclama: “Se mi aiutate voi la facciamo”, e tutti gli occhi luccicano. All’attacco di Voglio vederti danzare la platea non resiste, tutti ma proprio tutti si alzano e, sotto il palco, ballano a due passi da lui. Noi vediamo danzare anche lui, e si diverte.
…for malacopia
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