(Premessa: vi ricordo che ho una lingua che è una stola).
Ebbene sì, io ed il mio ancheggiare da hobbit ce ne siamo andati a Berlino una settimana.
Tutto è partito agli inizi di marzo: sabato sera, compagni di sventura, Montenegro.
“E quest’estate che si fa?”.
Domanda alla quale in genere si sa rispondere con la stessa precisione destinata al quesito sul verso del coccodrillo.
“Boh. Proposte..?”.
Sguardi vacui, smorfie incerte. E poi, eccolo lì, acquattato dietro il contenitore dei tovaglioli, il lampo di genio (merito del mio amico A., che quando si tratta di illuminare il prossimo può benissimo essere considerato una fiaccola olimpica): “Ragazze, andiamo a Berlino!”.
Che cazzo, sì. Diavolo d’un giovane!
E allora organizza-prenota- bestemmia- aspetta agosto- fai gli esami- bestemmia ancora un po’-cerca di non tirare le cuoia prima di partire…sospiro di sollievo..partenza!
Arrivederci Zante ove il mio corpo fanciulletto giacque, prendo l’aero dalla Laguna – speriamo di non planare nelle paludose acque.
Andati, vissuti, tornati, depressi, ripresi. Cazzo.
Resta la seguente lista da appuntario, una specie di brainstorming di tutto ciò che ho visto, vissuto, odiato e gioito di questa splendida città che è Berlino.
–L’acqua.
Una bottiglietta costa cinque euro, un panino 1,90. Alla faccia dell’oro blu.
I tedeschi non sono grassi, sono economi espansi.
– Il potere di Febo.
I crucchi sono fotovoltaici.
Giorno? Non ti giri nemmeno.
Notte? Un’anima (foss’anche di plexiglass) in giro nemmeno a pagarla. Dopo le dieci, alakazam!, e non c’è più nessuno.
– Le tabaccherie.
Un sacco di negozi con la licenza per la fuffa più immonda ma un Tabaklade neanche a tirare le cuoia.
Però, se vuoi, le cicche te le vendono al supermercato.
– Il philadelphia ai crauti (e non sto scherzando).
Credo vada provato – magari non a colazione con la marmellata di albicocche sopra come stavo per fare io, però ricordiamoci che io sono un’ idiotapotente.
– Abbaiare dal freddo.
Un gelo da galera. Un vento assassino. Sbalzi termici più a saltoni dell’umore di Marina Ripa di Meana. Il primo giorno, belli carichi, decidiamo di fare un giro di perlustrazione della città e poi di andare a mangiare fuori. Erroraccio.
Specie perchè il ristorante messicano prescelto per l’occasione è sempre più ai confini del mondo civilizzato di quanto ti aspetti; la cartina ti dice “Berlino Est”, in realtà sei a quattro miglia da Tenochtitlàn.
E ovviamente ti mettono a mangiare fuori. Abbiamo cenato per assumere le spoglie di una confezione di Findus.
– Colazione internazionale.
Internazionale perché ti ritrovi ad imprecare in molte lingue, persino quelle a te sconosciute: alla mattina io voglio il mio caffè senza rompimentodicoglioni. Piccola chicca dell’hotel dove stavo io: la colazione era accompagnata dal sottofondo strumentale de “Il Padrino”. Inquietante.
– Lo stile.
Ma dio caro – per non dire altro. Dove sono i bei tempi andati dei sandali col calzino? Il Leitmotiv in poche parole è “Sorelle Bandiera vs Barbarella”: ho visto quarantenni vestite come degli amuleti indiani. E comunque tutto torna a tuo favore, perché anche se non hai sbatti di vestirti la mattina e quando esci sembri una sigaretta spenta nell’aceto di mele, sei comunque inopinabilmente decente. Inspiegabile.
– La stazione ferroviaria di Alexanderplatz.
Per cercare i bagni ho perso un anno di vita, quell’agglomerato di casi umani è grande come una provincia autonoma a caso dove ancor più a caso frequento a caso un ateneo a caso. L’esegesi della casualità della vita, eh?
– Alexanderplatz in generale.
Centro nevralgico della parte orientale della città; covo di artisti di strada, Lolite e nemici dei parrucchieri. Respiri punk quando arrivi. La riconosci subito perché al centro c’è un astrolabio gigante.
Inoltre, se siete nati sotto una stella davvero squisita come me, potete provare l’ebbrezza di incappare nel GiocaJouer teutonico. Inascoltabile.
– Italiani all’estero.
Ahimè, eccallà: la sagra dei poracci.
– Tedeschi nel loro habitat.
È la resa dei tonti. Per carità, grandi teste e popolo di ingegneri per le grandi cose ma per le cagate basilari sono dei koglioni con la k. Per esempio in aeroporto sono disorganizzati da far schifo perché non sanno leggere un nome.
– Primark.
Il luogo dove tutti i portafogli vanno a morire (spesso a scapito dello stile, ho visto cose che voi umani… Madonna del Carmelo! Da farsi venire la retina a mosca).
– Api.
Se i crucchi mi schifano perché sono italiota, l’Ape Meyer no. Lei vuole diventare la tua migliore amica. Scatti da maratoneta perché sono stata scambiata per un’arnia dalle tre alle dieci volte OGNI SANTISSIMO GIORNO.
– Il mito del biondo pataccone germanico.
Sarà che i tempi sono cambiati oppure sarà l’evoluzione della specie, ma io ho visto tanti ologrammi del sergente Garcia e poche fate.
– La metropolitana.
È impressionante come ovunque tu vada ti tremi il culo come se fosse bollato Haribo perché sotto ai piedi ti passa il Nottetempo formato talpa (io dovevo sempre prendere la U2, mi beavo nella convinzione che guidasse Bono). Tamen, comodissima: ogni dieci minuti ne passa una, mai in ritardo. Quadrata, pratica, buona.
Un ritter.
– I baffi.
Presente quei bei baffoni a manubrio che sfoggiano i signori birraioli? Anche le signore li hanno. E sembrano sfoggiarli più spavaldamente dei mariti.
– Il Pergamone.
L’altare di Pergamo. La porta di Ishtar ed il frontone della porta del mercato di Mileto. Il codice di Hammurabi (che tra l’altro, qualche idiota ha sparato in un angolo. Manco fosse stato messo in punizione). Non servono parole.
– Nefertiti all’Altes Museum.
4000 anni e neanche una ruga. Quasi come la Scèronston. Frase inflazionata come il formaggio con le pere, ma effettivamente le mancherebbe solo la parola.
– Il Tiergarten.
Odi il mondo? Vai lì a passeggiare. 210 ettari di verde e nessuno che ti sfabbrica i maroni, ciclisti a parte.
Meglio della cromoterapia (occhio agli scoiattoli che vi tagliano la strada).
– East Side Gallery.
Muhlenstrasse, a lato della Sprea (il fiume che attraversa la città). Poco più di un chilometro di muro, considerata la galleria d’arte all’aperto più lunga del mondo.
È davvero pazzesca: ci sono circa 106 murales tra cui alcuni famosissimi, come il bacio fra Honecker e Breznev o la “Buerlinica” (che a me piaceva un sacco, nonostante detesti con tutto lo slancio possibile Picasso). Quando ti ci trovi davanti capisci che razza di ingombro fosse il muro, vedi la divisione netta fra l’Est e l’Ovest: la parte orientale di Berlino è un conglomerato di casermoni e palazzi grigio modestia, mentre l’Ovest esplode di negozi (manco a dirlo, il KadeWe: “Kaufhaus des Westens”, centro commerciale dell’Ovest). Realizzi (o almeno, così io ho fatto) che Berlino è ancora una città infante nella sua unità; è una cavolata incredibile da dire , ma Berlino Est conosce la Coca-Cola da quanto la conosco io.
Ti lascia senza fiato. Poi, per fare una cacchio di foto, desideri che lascino molto prima senza fiato tutte le altre persone che ti si cacciano prepotentemente in mezzo ai piedi.
(…to be continued…)
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