È mattina e mi soffermo dinanzi allo specchio. Chiudo gli occhi. “Pronto per questa giornata”, penso. Riapro gli occhi e… Sorpresa! “No, non sono io quello”, sussurro lentamente anche se esegue i miei stessi movimenti. “No, è impossibile” , continuo a ripetermi. “Da quando sono così altro? E perché, laddove dovrebbero esserci il letto, vi sono luci colorate e macchine da ripresa. “E se…”, tante ipotesi che salgono alla mente. “…fossi IO il vero TE?”. Un attimo, da quando uno specchio parla? “Scusa?”, mi ritrovo a chiedere verso la mia «immagine». “Ovvio, no? Chi di noi è il vero TE?”, chiede l’immagine con la stessa mia voce. “Ovvio… Io”, mi affretto ad anticipare l’«altro», inutilmente. “Sai chi sono, in realtà?”, chiede ancora. “Sembri me”, rispondo. “Un po’ vago. Io SONO te”, mi corregge l’altro con il consueto sorriso. “No, fermo. Io sono te… cioè me. Tu non c’entri nulla”, ribadisco un po’ irritato. “Ma certo che c’entro! Se alzo una mano, tu fai lo stesso. Quindi io sono te; sai cosa stai facendo?” mi domanda ancora. “Parlo con uno specchio”, abbandono ogni logica razionale. “Esattamente. Sono quello che tenta, ogni giorno, di uscire da qualche cassetto dietro di te. Forse ci sono riuscito”, spiega l’altro con tono rassicurante. “E quale sarebbe il tuo obiettivo?”, chiedo attratto dalla conversazione. “Quello di poterti parlare”, afferma, continuando a sorridere. “Sei impazzito? E se mi vedessero parlar da solo?”, domando irritato da quel tono, vagamente familiare. “Non parli da solo! Comunichi con me, ed io sono te, che c’è di male a parlare con se stessi?”, controbatte. “Parlo con me stesso? Sto diventando matto”, sussurro agitato. “Perché matto? Io non lo sono quindi neanche tu perché…”, oramai è diventata una cantilena. “…Io sono te. Ho afferrato il concetto. È tardi e devo scappare”, sono spazientito. “Finché sono qui, potrai vedermi in ogni specchio”, sorride lui mentre mi parla. “Non posso parlare con te in mezzo alla strada”, tento di spiegare mentre sento i primi passi nei corridoi. “Posso parlare solo io, se vuoi!”, spiega l’altro. “Non voglio. Lasciami in pace”, i passi si fanno più vicini. “Certo che lo vuoi, lo sento dentro di te. Perché io sono…”, è diventata una filastrocca. “Non sei me. Sei solo uno stupido riflesso!”, rispondo con voce seccata. “Non sono uno stupido perché diresti a te stesso che sei uno…”, continua lui. “SPARISCI!”, grido preso dalla rabbia, gettando a terra lo specchio che si riduce in frantumi. Ricordo che fui colto da un senso di sollievo, presto soppiantato da una strana sensazione di inquietudine. Girai ogni specchio della casa nella speranza di rivederlo. Di rivedermi. Ma non lo rividi più. Uscì di casa per il mio primo giorno di scuola superiore, quella che, a quanto si dice, “è il ponte tra l’infanzia e la maturità”. Forse un’ultima resistenza prima del suono della campanella. Peccato non averla ascoltata anche se vedo un’ombra in qualche riflesso degli specchi. O così pare. Ma nulla di più!
Antonio Ceglie
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