Un tempo fu Socrate, il modello di saggio tramandatoci dall’antichità, che odiava i libri e professava la fede nella cultura orale e nel dialogo come unico mezzo di trasmissione della conoscenza.
Dopo che Platone – con olio di gomito e sindrome da tunnel carpale – mise per iscritto con memoria elefantina tutti i pensieri del maestro, Aristotele diede un taglio al dibattito e preferì lasciare tutto nero su bianco. E di tempo ne dovette avere per stare seduto e scrivere, vista la fascite plantare da walking peripatetico che lo flagellò, costretto con talloniera e bastone, probabilmente quello stesso con cui incroccava Alessandro (Magno) quando sbagliava un dattilo recitando Omero.
E quegli scritti furono tramandati in un processo interminabile sui supporti più svariati, dalla pietra, al papiro, alle tavolette di legno cerate, dalla pergamena fino alla carta, passando dai formati extra large delle XII tavole o del Corpus iuris civilis, a quelli small ed estremamente glam nelle loro copertine intarsiate, tipo quelli che la “faraonessa” Berenice o le regine europee se li portavano in borsetta per ammazzare il tempo quando i mariti erano in guerra e la servitù maschile troppo impegnata per dividere un mezzo zabaione con loro.
Tra le qualità che si possono scorgere in un libro che, come si è detto, possono essere svariate, spesso, se ne sottovaluta una sorprendente: il profumo.
Ah, ma perché i libri profumano? Ihihih – rise il volgo ignorante e con loro i teorici della New Economy.
È un profumo particolare, di quelli che si propongono con odore fortissimo, quasi un pò secco e ficcante, sgradevole all’impatto, ma che poi per una chimica naturale, favorita anche dalla curiosità, diventa man mano piacevole fino a scomparire (e bisognerà prima o poi incominciare a leggere, mica siamo in profumeria!).
Per intenderci è quello molto comune nelle biblioteche meravigliosi che li ospitano da secoli. Ma anche nelle librerie dei nostri nonni dove testi datati giacciono, come in un sonno semieterno, in un angolo di una mensola o di uno scaffale, attendendo che qualcuno con arti negromantiche li resusciti. Una volta padrone dello spazio, scuote prima l’olfatto e poi tutti i canali sensoriali, quasi a generale un terremoto interiore, che solletica l’immaginazione fino a far ripensare alle mille dita delle mille persone che quella carta hanno sfogliato.
Su molti di essi giacciono le tracce biologiche di chi con certosina pazienza li ricopiò, chi li consultò, chi li lanciò in un impeto d’ira leggendo qualcosa che non gradiva (caro lettore timorato di Dio, non te la prendere; in effetti la terra è rotonda e gira intorno al sole). Insomma il libro racconta una storia di uomini, di mondi reali o metafisici, ma è anche la vita, nella composizione naturale del suo supporto cartaceo e nella chimica organica che continua a contrastare eroicamente l’usura del tempo.
Eppure quel profumo non tutti possono coglierlo e raccontarne gli effetti quasi inibitori. Non a caso esso vaga nell’aria con prudenza, si manifesta solo a pochi prescelti, evitando accuratamente di finire sotto le narici di Elizabeth Arden e nel giro di pochi giorni in una vetrina della Profumeria Nose al 20 di rue Bachamount a Paris.
Bisogna, quindi, mettersi in lista di attesa come per avere un posto in prima fila a Brodway per Cats oppure un appuntamento con quel certo strizzacervelli londinese che ha risolto l’enigma di Amanda Lear?!
No, qui i soldi, le mode, il glamour non rientrano nella strumentazione per la sopravvivenza; non è la giungla metropolitana ma il giardino di Sophia, che apre le sue porte naturalmente e senza chiedere nulla in cambio, tranne un’anima disposta a farsi frantumare in mille cuoricini per, poi ricomposta dal piacre, diventare adepta dell’eresia del nuovo millennio che si chiama CULTURA.
Franz Iaria per malacopia
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