XXI edizione di Garofano Verde a cura di Rodolfo Di Giammarco, 8-10 settembre al Teatro Argentina di Roma.
La XXI edizione della Rassegna di Scenari di Teatro Omosessuale Garofano verde, curata da Rodolfo Di Giammarco, apre con uno spettacolo che nega se stesso a cominciare dallo stesso titolo: Io mai niente con nessuno avevo fatto. Tutto è già accaduto ed è rievocato attraverso una drammaturgia del ricordo. Tre personaggi, tre identità apparentemente diverse ma che la vita fa incrociare e i cui destini sono irrimediabilmente compromessi. Il tutto ambientano in una Palermo senza connotazioni particolarmente definite e caratterizzata da un interessante tessuto linguistico.
Ecco i protagonisti: Giuseppe, 36 anni, insegnante di tango, esistenza travagliata fin dall’infanzia, madre prostituta che lascerà prostituire anche la figlia. Subirà violenza da parte di Carmelo, suo cugino. Trauma che non elaborerà e, da vittima, diverrà aggressore. Per fortuna, la passione per il ballo ed un matrimonio metteranno a tacere le dicerie riportandolo ad una presunta credibilità e serenità. Gli altri due protagonisti sono Rosaria e Giovanni, figli di sorelle, ragazze madri di padri scomparsi di un imprecisato nord. I due ragazzi legati da un sentimento forte e imprescindibile; lei, col sogno infranto di principessa che vorrebbe viaggiare per l’Italia abbandonando il proprio castello in ristrutturazione e lui, principe ballerino ma attento e premuroso alla lascivia della cugina. L’incontro con Giuseppe è fatale, a parte l’attrazione reciproca immediata, il tanghero farà da untore, contagiandolo col virus dell’Hiv, allo spirito puro del ragazzo, la cui unica colpa è quella di avere amato ed essersi dato solo Giuseppe.
E qui, con una consapevolezza disarmante ed un candore dalle forti tinte, il finale non lascia presagire nulla di positivo. Forse i due cugini in fuga per quel viaggio nel continente tanto agognato troveranno la definitiva via d’uscita dalla loro miserevole quanto preziosa esistenza: il suicido per l’una e l’assassinio per l’altro.
Come in un trittico di Francis Bacon dai contorni sfuocati e dagli scatti repentini, l’autore, regista ed interprete principale Joele Anastasi congela i tre protagonisti. Ognuno di loro, come inprigionato in un proprio isolamento, non interagisce mai con l’altro. Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano, facilitati anche dal linguaggio estremo e dall’asciuttezza del dialetto palermitano, sono bravi e generosi. Prodotto da Vucciria Teatro e con contributi di vari enti, Io mai niente con nessuno avevo fatto è uno spettacolo pluripremiato e trova la giusta dimensione sul palcoscenico dell’Argentina.
Il secondo appuntamento della rassegna è di tutt’altra pasta. Testo di grande sensibilità e garbo scritto da Toni Laudadio e prodotto da Teatri Uniti reca il titolo Birre e rivelazioni. Ecco la storia: Sergio gestisce un pub e la sera di Hallowen, mentre sta per chiudere, in considerazione dei pochi clienti, viene raggiunto da Marco, professore di italiano di suo figlio Francesco. Figlio diciottenne, quest’ultimo, ‘più unico che raro’. I due si erano già conosciuti ai consigli di classe e poi in otto brevi incontri, scanditi da otto birre che i due protagonisti sorseggeranno, lo spettatore assisterà al dipanarsi della vicenda.
Marco cerca nel genitore di Francesco complicità e comprensione per la rivelazione che il ragazzo gli ha fatto. Francesco teme di essere gay e lo confessa all’insegnante che invece è gay dichiarato e rispettato nel suo ambiente. Sergio, personaggio ben scritto e ben riuscito, sopratutto nell’interpretazione che ne fa Andrea Renzi, che con la sua goffaggine e gradasseria risulta solo che tenero e spaesato, a seguito della rivelazione fa fatica ad accettare la natura diversa del ragazzo. Al punto che, in un finale commovente, per dar aiuto e comprensione a suo figlio ‘immolerà’ se stesso al professore. La felice conclusione riscatta tutti: l’amore universale, non quello di genere né quello etero, l’amore qualunque esso sia, è uguale per tutti e può salvare tutti.
Sulle note di Simon & Garfunkel l’autore e regista delicatamente conduce per mano lo spettatore e in otto brevi o più lunghi round dipana la sua tenue e garbata storia intrisa di forte humor. Ben scritta, si apparenta direttamente a certe pièces di Alan Benett. Il professore, un Roberto De Francesco con un filo di voce ed un divertente accento veneto e lieve pinguetudine che fa tanto anni ’70, più che all‘Attimo Fuggente, come viene dichiarato nello spettacolo, ricorda proprio il personaggio di The History Boys, il professor Hector.
Il terzo ed ultimo appuntamento, a firma di Ivan Cotroneo, sceneggiatore ed autore di romanzi di successo, è Un bacio, ispirato ad un fatto di cronaca americano ma calato perfettamente nella miseria della nostra cultura italiota. La qual cosa è dichiarata, e a giudicare dal lessico e dalle inflessioni dialettali, ci sono un po’ tutte le provenienze dal nord al sud, nessuna località specifica.
Anche qui tre punti di vista per un unico tragico finale. E tutto questo per un bacio che Lorenzo, ragazzo dalle forti e decise motivazioni, seppur d’apparenza gracile ed effeminato, innamorato del suo compagno di classe, dà al nerboruto e fascinoso Antonio. Il tutto sotto gli occhi benevoli e incoraggianti della professoressa Valente, per altro anch’essa con forti turbamenti ed attrazioni verso una persona del suo stesso sesso. Tre stazioni, tre momenti, tre grossi blocchi che sviluppano drammaturgicamente l’accaduto. Antonio si sente stranamente attratto da quella dolce e pudica attenzione ma la respinge per paura delle critiche dell’ambiente circostante. Dopo il fatidico bacio, decide di andare in classe e di finire il compagno con un colpo di pistola, sotto gli occhi di tutti ma sopratutto della Valente. Un colpo secco partito dalla pistola rubata al padre cacciatore, fredda l’incauto giovane innamorato. Iaia Forte, che interpreta la professoressa Valente con corde decisamente passionali e partecipi, assume anche su di sé la mise en espace: un immagine proiettata a tutto schermo sul sipario tagliafuoco, ritrae la famosa immagine de La classe morta di Tadeusz Kantor, facce di pietra scolpite su corpi inermi ed atterriti, innumerevoli sedie vuote sparse per il palcoscenico, probabilmente abbandonate subito dopo l’avvenuta disgrazia e tre leggii che si ergono a dimostrazione che un episodio del genere può essere solo che riferito con la lucida follia che l’ha generato.
Matteo Lai è un partecipato Lorenzo. Antonio straordinariamente spaesato quanto attonito invece è il bravissimo Enzo Curcurù. E finalmente le note sino ad allora solo accennate di Pregherò di Adriano Celentano possono prendere il respiro che meritano.
Tre, dunque. Il tre sembra essere, come nel significato dei numeri, un concertato perfetto. Ognuna delle tre serate, tre per l’appunto, ruota intorno ad un terzetto di protagonisti/antagonisti. Chissà che questo numero, così ben augurale, non porti fortuna e sia di buon auspicio affinché si possa finalmente esprimere il proprio modo di amare liberamente e senza essere ghettizzati all’interno di qualsiasi rassegna o etichetta.
Mario Di Calo per malacopia
Scrivi un commento