Ero circondato da escrementi.
Anzi, erano più che altro esalazioni di escrementi.
È pur vero che si trattava di solidi e liquidi espulsi dal corpo di persone che conoscevo, ma la realtà è che a volte l’odore che mi circondava era talmente forte che mi sembrava di essere in un’atmosfera trasognata alla guida di un camper usato le cui piccole stanze erano soltanto Toilette Rooms, con WC intasati di cacca, lo sciacquone rotto e le finestre blindate.
In questa fantastica metafora mi figuravo a defecare le persone a me care su ogni WC del camper. Era il mio personale modo di interpretare la loro frase: ora sei nella merda. In ogni stanzetta del camper c’era qualcuno, i miei genitori, la mia madrina, la mia compagna, gli amici d’infanzia, il mio dottore Doriano, e anche i colleghi di lavoro.
Ed eccolo. Questo era il punto.
Il lavoro.
Dieci anni prima di quel giorno, ero entrato un po’ ingenuo ed emozionato nella redazione di un settimanale a Milano per chiedere lavoro dopo la mia laurea in Filosofia.
Volevo far parte di una redazione, scrivere articoli, conoscere storie, intervistare personaggi, dare opinioni, insomma fare cose, vedere gente, guadagnare soldi.
Milano puzzava di gas di scarico Euro 2, e in quella redazione avevo finalmente respirato aria di lavanda, che mi aveva ricordato la Provenza, che a sua volta mi aveva ricordato un viaggio nel sud della Francia di qualche anno prima, che a sua volta ancora mi aveva riportato alla memoria un tempo in cui avevo vissuto un anno nel nord della Francia per uno scambio culturale con la scuola, nella città dov’era nato Rimbaud, il quale mi aveva fatto tornare in mente quel fantastico verso de Una Stagione all’Inferno: “Ho il mio compito, ne sarò fiero come molti, mettendolo da parte”. Ma non sapevo ancora che attinenza potesse avere con la mia carriera di giornalista.
Avevo deciso quindi. Volevo fermamente farmi assumere nella redazione di quel settimanale di Milano. Il profumo di lavanda mi aveva accerchiato e convinto.
Ogni mese compravo un profumatore d’ambiente nuovo per l’ufficio che avevo ottenuto. In dieci anni avevo testato ormai tutte le fragranze, i miei abiti, via via più borghesi, si erano impregnati di qualsiasi essenza si potesse trovare in natura.
Appena ho avuto il diritto a mettermi in lista per qualche settimana di vacanza, ho scelto gli orti botanici più belli d’Italia, e non solo.
I miei genitori dicono tuttora che è colpa degli orti botanici se mi trovo nella merda ora, o meglio, nelle esalazioni.
La mia compagna non è così radicale, ma crede molto negli effetti collaterali di profumi respirati per troppo tempo senza nessuna protezione, tipo una mascherina, o una boccata d’aria in montagna ogni tanto. C’è da dire anche che tutte le ragazze con cui ero stato prima di lei mi avevano lasciato perché non ne potevano più di fare le vacanze nell’Orto Botanico di Brera o in quello dei Navigli.
Sinceramente non le ho mai capite. E non ho mai capito davvero di chi o di che cosa sia stata la colpa della situazione in cui mi sono trovato di recente. Posso solo raccontarvi come sono andati i fatti.
Per entrare in ufficio alle 8.00 dovevo alzarmi alle 5.45, calcolando un quarto d’ora fisiologico per riprendermi dall’inconscio, un quarto d’ora in bagno, un quarto d’ora per la colazione, un’ora di traffico e mezz’ora per raggiungere a piedi la redazione dopo aver sistemato l’auto nel parcheggio a pagamento più vicino all’ufficio.
Il mio mattino aveva la gomma in bocca. Non solo quella delle ruote delle auto che a contatto col cemento riscaldato dal sole mi dava il buongiorno già sulla strada per il lavoro, ma anche quella gomma puzzolente che rivestiva l’ascensore con intarsi post-modernisti che mi traghettava in ufficio ogni giorno.
Tutte le volte che varcavo la porta per raggiungere la scrivania, passavo attraverso l’ormai nauseabondo odore di carta appena uscita dalla stampante laser b&n. L’inchiostro delle parole tutte ravvicinate mi avvolgeva, quell’odore di bianco e nero caldo, mischiato all’odore delle ascelle di Gianfranco, il collega sottopagato che mi allungava le fotocopie – c’è sempre un collega sottopagato che non si lava le ascelle in ogni ufficio – mi causava un leggero rigurgito della colazione.
Verso le 10.30 ogni mattina quasi tutti scartavano un panino farcito e il prosciutto cotto s’insinuava nelle mie narici, a volte con un tanfo talmente forte da dubitare di ciò di cui l’animale stesso si era nutrito quando era in vita.
Due ore e mezza più tardi, finalmente, un intenso sentore di armadio stantio che emanava dalle cravatte dei miei colleghi si allontanava, ed ero solo in ufficio. L’unico odore con cui dovevo confrontarmi in pausa pranzo era quello dell’ecopelle delle sedie rimaste vuote, insieme a qualche brezza trasportata dal vento che aveva un retrogusto di pipì che rimane nell’acqua del WC quando uno si dimentica di tirare lo scarico.
Pranzavo da solo e progettavo la prossima campagna pubblicitaria delle aziende che facevano inserzioni sul settimanale.
Io – che avrei voluto scrivere articoli interessanti, elargire al mondo riflessioni etiche, preparare interviste, fare cose e vedere gente nel mio nuovo ufficio dal sapore di lavanda, che mi ricordava la Provenza, che a sua volta mi ricordava un viaggio nel sud della Francia di qualche anno prima, che a sua volta ancora mi aveva riportato alla memoria un tempo in cui avevo vissuto un anno nel nord della Francia per uno scambio culturale con la scuola, nella città dov’era nato Rimbaud, il quale mi aveva fatto tornare in mente quel fantastico verso de Una Stagione all’Inferno: “Ho il mio compito, ne sarò fiero come molti, mettendolo da parte” – mi trovavo invece, a causa di uno stipendio buono e sicuro, circondato da fogli caldi d’inchiostro appena riversato, passati a me da uno che per dieci anni non si era lavato le ascelle, impregnati per giunta da un olezzo di prosciutto cotto andato a male ogni santo mattino.
Per non eccedere nel vittimismo, preferisco non raccontare la routine di odori che saturavano i miei pomeriggi in quell’ufficio. L’unica cosa significativa che ho fatto di pomeriggio e che vale la pena di essere raccontata, è stata la mia decisione di darci un taglio netto con i profumatori d’ambiente.
Dopo l’ennesima brezza di piscio che dal bagno rimasto aperto mi aveva raggiunto in ufficio mentre scrivevo un claim aziendale che incitava a decorare gli interni della propria auto con profumi a forma di cimice, ho avuto un’illuminazione. Anzi, come direbbe Rimbaud, un’Illuminazione.
Ho capito che gli altri colleghi puzzavano, è vero, c’era chi odorava più di prosciutto che di ascelle, ma non avevo mai pensato che anch’io, nel mio piccolo, potevo puzzare. Mi facevo la doccia ogni mattina certo, ma da quando ero entrato in redazione dieci anni prima, avevo notato che un certo odorino, dapprima quasi impercettibile, e poi sempre più forte, mi accompagnava. Ero certo di non essere io, eppure l’odore mi seguiva in ogni spostamento, e dopo tutto quel tempo avevo finalmente capito.
La mia vita puzzava di cacca, e io per dieci lunghi anni non avevo fatto altro che spruzzarci sopra ogni tipo di essenza profumata. Ecco la verità. Se la tua vita puzza di cacca e ci vaporizzi intorno la fragranza di menta piperita, la tua vita rimarrà pur sempre una vita di merda, ma all’aroma di menta piperita.
Questi sono i fatti. Mi sono licenziato e con la liquidazione e qualche risparmio ho comprato un camper usato.
E preferisco di gran lunga guidare un camper usato le cui stanze sono solo Toilette Rooms con Wc intasati dagli amici che passano a trovarmi per dirmi che ora che mi sono licenziato sono nella merda, ma poter andare a zonzo per scoprire quali altri profumi reali esistono oltre a quello della lavanda in Provenza, piuttosto che spruzzare essenze profumate su una vita che mi dà la nausea.
Davide Ricchiuti per malacopia
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