La distanza da qui di Neil LaBute, a regia di Marcello Cotugno, debutta stasera, 4 aprile, in prima nazionale a Roma presso il Teatro Sala Uno. Marco Melluso ha intervistato Marcello per malacopia.
Marco: Neil LaBute è conosciutissimo nel mondo. Tu come lo hai conosciuto? Cosa ti colpisce di più nella sua drammaturgia?
Marcello: Mi interessa parlare di noi, di quello che ci succede, e indagare sugli aspetti oscuri dell’essere umano. Neil LaBute, autore che ho rappresentato più volte nel corso della mia carriera, sa farlo in maniera illuminante, acuta, spiazzante: con spietato cinismo e con commovente empatia. Per questo, da quando ho visto per la prima volta un suo testo, Bash, rappresentato a New York nel 1999, è diventato l’interlocutore d’elezione della mia ricerca teatrale: in LaBute, quello che avviene in scena riguarda tutti noi, tutti siamo chiamati in causa, in un rito di catarsi collettiva che, senza esaurirsi nel tempo dello spettacolo, lascia degli interrogativi aperti che accompagnano il pubblico fuori dalla sala.
Marco: La distanza da qui è la storia di adolescenti, adolescenti americani. Quanto sono diventati “italiani” i protagonisti del tuo allestimento?
Marcello: LaBute si interroga su come il contesto socio-culturale influenzi in maniera determinante gli abitanti di un luogo, ponendosi come humus attraverso cui assorbono e interpretano il loro stare al mondo: dietro la grettezza dei protagonisti della storia si cela in realtà una dura critica alle derive della società occidentale. La sua riflessione investe la periferia come luogo dell’anima: per questo non ho ritenuto necessario “italianizzare” in maniera evidente il linguaggio o i riferimenti culturali. Nella periferia americana descritta da LaBute, possiamo rivedere, spostandoci sulle nostre latitudini, la 167 di Napoli, lo Zen di Palermo o il Laurentino 38 di Roma, in cui si affollano le stesse storie di marginalità e disagio.
Marco: Com’è stato dirigere così tanti attori e così giovani?
Marcello: Lavorare con degli attori giovani, con cui ho condiviso già un lungo percorso pedagogico, è stato particolarmente stimolante. Il periodo delle prove, per me, è una sorta di festa collettiva, di rito da playground dove attori e regista si possono confrontare senza scudi protettivi. Questo confronto alla pari mi permette di costruire il rapporto di reciproco affidamento e fiducia grazie al quale, da regista/demiurgo, riesco ad attivare un processo maieutico in cui provo a capire quali siano le capacità organiche dell’attore, per poi confrontarle con il senso profondo che egli stesso vuole dare al personaggio in prova, arrivando così in maniera naturale alla performance finale.
Marco: Il progetto nasce intorno al Drao, un collettivo artistico interdisciplinare, potremmo dire. Quanto è importante oggi, nel momento storico di crisi d’identità che sta vivendo il teatro, trovare sincretismi tra drammaturgia, arte, musica, danza e tra generi diversi anche all’interno del teatro stesso?
Marcello: Da sempre il mio teatro nasce da un crossover culturale che contamina i generi: video, musica, nuove tecnologie, ispirazioni cinematografiche confluiscono in quello che si può definire un teatro pop, ovvero un teatro che, mediando la forma classica ne sviluppa un’altra, sperimentale perché accessibile, nuova perché “remixata”. A mio parere, il teatro, per continuare a intercettare le tensioni del contemporaneo, deve sapersi contaminare. Esperienze come Drao, che coinvolgono professionalità diverse in un progetto comune, dimostrano che anche in tempi di crisi le energie creative possono essere convogliate, e mescolate, sul palcoscenico in maniera intelligente e innovativa.
Marco: Ormai da tempo si parla di crowdfunding. Ancora in questi giorni ho letto un articolo interessante su Veronica Mars, una serie tv americana cancellata dopo 3 stagioni, che rivive al cinema grazie al sostegno dei series’ addicted. Questo spettacolo è prodotto anche grazie al contributo di 50 webfilantropi. Voi debuttate tra pochissimi giorni. I 50 verranno a vedervi?
Marcello: Spero proprio di sì. L’idea del crowdfunding nasce, da un lato dalla presa di coscienza dell’endemica assenza di risorse produttive, dall’altro dalla volontà di riportare il teatro agli spettatori, rendendoli parte attiva e motore del processo creativo e responsabilizzandoli nel loro ruolo di co-produttori di un contenuto culturale.
Marco: La figura del produttore è sempre ingombrante. In questo caso, quanto e in che modo ti sei sentito “condizionato” dai vostri sostenitori?
Marcello: Non parlerei di condizionamento ma di dialogo: al di là dell’esperienza del crowdfunding il mio lavoro da sempre, più che essere un’autoreferenziale proiezione del mio ego, è rivolto allo spettatore, per dimostrargli che il teatro può essere – in senso antico, eppure contemporaneo – un’esperienza condivisa.
Marco: lo spettacolo debutta stasera. Riuscirete a fare una tournée a seguire?
Marcello: Speriamo che i dieci giorni di repliche a Roma funzionino anche da vetrina del progetto e che il viaggio de La Distanza da qui sia ancora lungo!
Marco: Il nostro sito si chiama Malacopia perché è un laboratorio creativo. Ci occupiamo di creatività dall’abbozzo, dalla malacopia appunto, fino alla realizzazione. Un tuo pensiero malacopia?
Marcello: Il teatro, per sua natura, vive di imperfezioni. In questo caos organizzato io ritrovo me stesso: amo vedere le mie idee prendere lentamente forma, attraverso un processo creativo condiviso, dalla polvere e dal disordine fino al momento in cui le luci si accendono e il sipario si apre, e ogni cosa e ogni persona trova il suo posto e la sua ragione.
Grazie Marcello, tanta merda! 🙂
Marcello Cotugno e Marco Melluso per malacopia
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