Quando, ormai un anno fa, guardavo La grande bellezza di Sorrentino, rimasi particolarmente colpito da Jep Gambardella, scrittore in crisi e, di ripiego, re dei mondani, che si lasciava trascinare nel vortice della Roma decadente contemporanea.
Duemila anni fa, forse quasi nessuno lo ricorda – ma ci penso io ad ammorbarvi con la lezione dei classici – uno scrittore, considerato scialacquatore e crapulone, ma pure un gaudente raffinato, Petronio, rappresentò allo stesso modo la crisi della società della Roma imperiale, dove il kitsch era diventata la regola e cagare su un vaso ad un gran gala davanti agli ospiti si qualificava come un atto di cortese intimità.
La sua penna descrive le fantasiose e signorili abitudini di un tal Trimalchione, liberto (adorabile quel modo raffinato con cui i Romani chiamavano gli ex pulitori di cessi), arricchito, proprietario terriero inurbato a Puteoli (Pozzuoli). Questo parvenu, dopo la faticosa scalata della società neroniana, la quale premiava solo le persone valide (credeceee!!! Urlò il volgo), trascorre le sue serate ad organizzare cene con prelibate leccornie, piccoli spettacolini a cura della sua fantasia (malata), discussioni sui massimi sistemi dell’universo (flatulenze intestinali, montoni arrapati che disturbano il gregge, allergia al sapone).
Ovviamente, da buon ed elegante padrone di casa trasforma le portate della sua cena in una vera e propria sfilata di arte culinaria, come dire: una pietanza per essere gustata a pieno, deve prima presentarsi bene e essere mangiata dagli occhi (ecco a chi si è ispirato Knam, vecchio volpone del Tirolo).
Come entrée olive nere, salsa di papavero, salsicce fritte sulla graticola, prugne di Siria con chicchi di melograno. E mentre il palato affoga in queste delizie, domandandosi tra un sapore e l’altro quale cuoco maldestro avesse potuto concepire questo terremoto di sapori che mandava in coma irreversibile le papille gustative, piove in sala il padrone di casa, con un teatrale e kitsch ingresso, degno dell’arancia meccanica di sapori di cui sopra.
Trimalchione, ostentando la sua ricchezza, esibendo delle braccia più addobbate di quelle della dea Kali, esordisce con una chicca da cerimoniale spagnolo (a vedere Trimalchione l’arciduchessa Sofia avrebbe considerato Sissi un’oxfordiana): rivolgersi agli ospiti parlando e pulendosi i denti con uno stuzzicadente, invocando implicitamente venia per la sua involontaria (aricredece!!!) buccia di banana e offrendo come dono del perdono becaccino immerso in salsa piccante di tuorlo.
E chissenefrega dell’educazione. Tutti a gozzovigliare come le cavallette, piaghe dell’Egitto: dopo l’antipasto un bel cinghialone accompagnato da cestini di datteri freschi e maialini di pasta di mandorle. Sale tutto: colesterolo, glicemia, azotemia… È quasi un’estasi.
Qualcosa però comincia a rimuginare nei piani bassi: l’esigenza di restituire alla natura ciò che ci ha dato diventa un’urgenza da allarme radioattivo. Trimalchione anticipa tutti. Va al cesso senza farne mistero e quando i commensali approfittano della sua assenza e si calano nel morbido piacere che solo il senso del gusto sa prudentemente alimentare, eccolo, che ritorna e racconta a tutti la sua seduta per deliberare. Aggiungendo che non va di corpo da giorni, che suda quando defeca e spera che la cura del suo medico vada a buon fine per evitare di continuare quello spiacevole effetto ambipur spray che ha reso la casa una centrale nucleare (facendo risparmiare alla moglie Fortunata gli aurei per i colpi di sole dal parrucchiere di Poppea).
Insomma, pensando ai malcapitati fruitori di quella cena non si può fare a meno di notare che spesso e volentieri il gusto strettamente gastronomico deve fare a pugni con il buongusto! Cuginetti provinciali e maleducati che fanno capo alle variabilità delle mode, il cattivo gusto radicato nel profondo dell’animo, quel monstrum (che nemmeno Enzo e Carla riuscirebbero a redimere con una borsa chic di agnello nero di Lady Dior) si rivelano anche a tavola.
Eppur tuttavia, sebbene declassata ad orrore delle cene ufficiali, a capitolo madre del non si deve fare a tavola, ad esempio di (S)cortesie per gli ospiti, la fama di Casa Trimalchione, celebrata anche nel Satyricon del maestro Fellini, è mondiale perché è il riassunto della morale gastronomica più autentica di ogni tempo: per godere a tavola, ma bene bene, bisogna abboffarsi senza troppe attenzioni.
E anche quando, usciti da quel contesto deformato che è la cena mangereccia, ci dovesse rimare un residuo di tagliata tra i canini e una macchia d’olio sulla polo (che trasforma in centauro il simbolo – molto british – di Ralph Lauren), le porte della consolazione di anima e corpo si aprono spontaneamente ai profumi delle spezie ancora tra naso e bocca e soprattutto alla gioia del tempo trascorso con gli amici, quelli dei racconti della felicità.
Franz Iaria per malacopia
P.s. A Pozzuoli c’è tuttora un ristorante che rimembra ancora Trimalchione e come lui si chiama. E si mangia da dio!!!
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