(…continua…)
Erano passate un paio di ore da quando Claudia aveva tentato di rianimare la nonna, ma nulla di quello che aveva provato a fare sembrava essere stato efficace. “Almeno è morta con il sorriso sulle labbra”, fu il suo pensiero. Aveva ricomposto alla meglio il corpo della nonna, che ora giaceva sul tappeto. La morte, a suo modo, sembrava averle restituito parte di una bellezza sfiorita molto tempo addietro. Era morta in modo sereno e pacifico, e anche abbastanza veloce.
Eppure Claudia sentiva il terrore pulsare dietro il suo petto, cupo e selvaggio come un animale in gabbia. Non era solo dolore infinito per la perdita della nonna, c’era qualcosa d’altro. Sforzandosi al massimo, portò il corpo della nonna fino al suo letto, adagiandolo con delicatezza sulle coperte di lana. Era così piccola nel grande letto su cui lei, da bambina aveva saltato tante volte. Restare da sola in quella stanza con la nonna le faceva troppo male, così chiuse la porta ed uscì, per tornare nella sala grande. Aveva ovviamente già provato a chiamare i soccorsi e i suoi genitori al telefono, ma quello fisso era muto per colpa della tempesta, e non c’era stato punto della casa in cui ci fosse un minimo di campo per poter usare il cellulare. Erano rimaste in casa solo lei, la nonna e la morte.
“Devo solo aspettare”, continuava Claudia a ripetersi, un po’ per farsi coraggio, un po’ per crederci anche lei. “Arriveranno gli aiuti della nonna, o forse i miei”. Nel mentre, il vento ricominciò a soffiare, facendo sbattere il ramo contro la finestra. Infastidita dal suono, Claudia cercò di aprire la finestra, invano. Una robusta patina di ghiaccio aveva quasi sigillato l’imposta. “Sono chiusa qui dentro” fu il primo, angosciante pensiero “Sono chiusa qui dentro, e nessuno lo sa”.
Un suono sinistro la scosse nel profondo: dalla gola della montagna, il vento soffiava verso valle, come se la montagna fosse scossa e lacerata da un dolore profondo, ed urlasse il suo dolore al mondo. Quando il vento soffia dalla montagna, porta con se le urla degli Shnurga, ripensò. Rimase imbambolata dal terrore, non più una donna adulta, emancipata, acculturata, ma una povera bambina sperduta, terrorizzata dalle parole di una favoletta di una nonnina che si divertiva a spaventare i suoi nipoti.
All’improvviso, un altro pensiero irrazionale la folgorò: l’aveva lasciata da sola la nonna, al buio, al freddo. Per qualche minuto, cercò di convincersi che era solo un pensiero sciocco: nessun morto si era mai lamentato di queste cose. E se in realtà non potessero dircelo, ma continuassero a pensare, e a non poter comunicare?. Il pensierò la riempì di angoscia. Troppa per poterla liquidare. E inoltre fare qualcosa, QUALSIASI cosa, era meglio che restare ferma ad aspettare il tempo che passa. Prese due candele, si portò fino alla porta della stanza della nonna, ne adagiò una sul comodino, e poi svelta, quasi fuggì via. Lei è da sola, lei è da sola, vorrebbe che io fossi vicino a lei. Una volta si faceva così no? La “veglia per i morti” la chiamavano. E se in realtà fosse solo un modo per accertarsi che un morto resti tale?!.
Si chiuse nello studio. Il fuoco del camino ebbe un sussulto. Il legno era consumato quasi per metà, e il calore e luce erano diminuiti. Claudia rigirò ansiosamente il ceppo, ravvivandone la fiamma. I minuti scorrevano lenti, pesanti, segnati dalla antica pendola, con i suoi rintocchi regolari e costanti. Il sonno sembrava quasi sul punto di coglierla di nuovo, una specie di benedizione di un Dio giusto, quando un suono acuto, meccanico e penetrante lacerò l’aria. Proveneniva dalla stanza della nonna.
La sveglia. Avrà puntato male la sveglia. Adesso la sveglia suona e lei si risveglierà! Stupendosi per quel pensiero ridicolo, cercò di ignorare il suono metallico. I rumori erano acuiti dal contrasto col silenzio della notte. Lo stridio della sveglia, il lento picchiare della pendola, il ticchettio ritmico dei rami. Quella casa sembrava avere iniziato a vivere ed animarsi, quando la sua padrona era passata oltre.
Oppressa da quel rumore, decise di fare qualcosa. Scattò in piedi dalla poltrona e fermò la pendola. I rami fuori dalla finestra non erano alla sua portata, e decise di ignorarli. Poi c’era la sveglia. Prese la lampada ad olio, si portò nuovamente, con passi lenti e pesanti, fino al capezzale della nonna.
Senza quasi guardare il corpo, armeggiò con mani tremanti dietro la sveglia, e, dopo un paio di tentativi, quel rumore infernale cessò. Prima di andar via, volse lo sguardo al corpo della nonna. Il sorriso gentile si era come indurito, le labbra erano diventate livide e bluastre, e quello che prima era un volto sereno, aveva un qualcosa di inquietante. Quel sorriso quasi beffardo, che la nonna aveva in vita, aveva lasciato il posto a un ghigno grottesco.
Era troppo. Uscì dalla camera e si rintanò ancora una volta nello studio. Dopo un po’, Claudia si rese conto che tenere il tempo senza strumenti era difficile, e quindi, anche se controvoglia, fece ripartire la pendola.
Dopo un po’ li sentì. Passi. Fuori dalla casa. Qualcuno finalmente era arrivato! Sarebbe tornata a casa sua, avrebbe fatto un lungo bagno caldo, e poi la nonna, qualcuno la avrebbe presa, l’avrebbe accudita e poi ci sarebbero stati i funerali, avrebbero pianto, poi dimenticato o, almeno, sopportato l’assenza e piano piano tutto sarebbe tornato normale.
Si affacciò speranzosa alla finestra, ma in realtà quello che vide era solo una sagoma in lontananza, nascosta tra gli alberi. Forse un piccolo orso, dato che si muoveva a quattro zampe, annusando il terreno. La creatura si fermò per qualche secondo e alzò lo sguardo verso la finestra illuminata. Il riflesso della luce nei suoi occhi per qualche secondo incrociò lo sguardo della ragazza. Lei cercò di capire che animale fosse. Sono creature di gelo e paura. Era un orso, era solo un piccolo orso.
E la sveglia suonò nuovamente. La ragazza si voltò di scatto. Quando si rigirò verso la finestra, non vide più l’animale, che probabilmente era tornato nei boschi. La sveglia intanto continuava a suonare. Si fece forza, e si portò nella camera della nonna. L’ultimo scherzo che mi fai, e di sicuro ti stai divertendo un mondo nel vedermi così spaventata, pensò tra sé e sé. Spense la sveglia, e, di sfuggita, posò un occhio sulla nonna: il volto era ora un mascherone grottesco.
Tornò alla finestra, nella speranza di vedere di nuovo l’animale. Almeno, in quel modo, non sarebbe stata l’unica creatura viva in quella distesa di bianca desolazione. Mentre si stava affacciando, la sveglia suonò di nuovo. Sembrava l’annuncio di un imminente attacco. Ma di cosa, che lì era sola, sola. Sola! Inferocita ed esasperata, si voltò e andò decisa verso la camera da letto. Avrebbe spaccato la sveglia contro il muro. La avrebbe rotta e il rumore sarebbe finito. Entrò nella stanza, il sangue pulsava rabbioso contro le tempie. “Ti spacco e questo casino finirà”.
Sbiancò. Una mano scarna e chiazzata, spense la sveglia. Seduta sul letto, giaceva la larva che una volta era stata sua nonna. La pelle del viso tirata in un ghigno, gli occhi infossati, le palpebre sollevate all’insù che mettevano in risalto la sclera. Lentamente, girò la testa verso la ragazza, sollevando lentamente le braccia, e dalla bocca, uscì un mugolio indistinto. La ragazza arretrò, mentre la cosa si sollevava, arrancando verso di lei.
Dal fondo della casa, Claudia sentì dei passi. Trascinati e pesanti. Qualcuno era entrato e ora stava salendo le scale. Nel corridoio un essere calzo, con i lineamenti deturpati e animaleschi, vestito di pelli, avanzava verso di lei. Fu allora che le parlo: “I morti camminano tra i vivi e gli Shnurga arrivano con loro. E vogliono sempre, SEMPRE il loro tributo”.
Francesco Castiglione per malacopia
Illustrazione di Loris Dogana
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