Urla che risuonano nelle ossa, le parole che pungono le membra. Lo strazio di una scelta certamente evitabile ma consapevole. Duramente consapevole. Irrimediabile e irredimibile ma pur sempre una scelta.
Così rivive Medea nell’ambito della bellissima rassegna di teatro antico al parco archeologico di Marzabotto. Non c’entra il maternity blues, chiariamolo subito. Non è la donna che combatte le depressioni post partum o il disagio di essere madre. Lei è madre e vuole esserlo, si è assunta la responsabilità di farlo.
Qui c’è Lei, c’è Medea, potremmo quasi dire in carne ed ossa. E non solo perché c’è Pamela Villoresi ad interpretarla, splendida nel suo abito rosso sangue. Ma perché c’è lei, Medea, nella sua individualità, nella sua dimensione più personale e unica.
Non è più Maria Callas, struggente concentrato di emotività in uno dei capolavori di Pasolini. Anche qui c’è la donna tradita, la donna ferita, ma non solo questo. Che già sarebbe abbastanza. Nella Medea della Villoresi si agita una donna a cui si vorrebbe negare la propria identità, alla quale si vorrebbe negare la vita. Un sopruso a cui Medea reagisce duramente, un’angheria che finisce in un altro sopruso.
Medea recita. Una parte nuova, non quella che ha recitato per una vita. Accanto a uno zotico inutile che splende della di lei intelligenza. Un ruolo nuovo, consapevole, di donna moderna, che invece che piegarsi e spezzarsi, invece di chinare il capo e annuire, spinge alle estreme conseguenze la sua scelta di essere persona. Una donna che chiede rispetto, che pretende rispetto.
Non serve la scenografia, non servono le luci. Il palco è pervaso dall’esistenza straziante della donna, che l’interpretazione della Villoresi arricchisce di un’umanità toccante, vibrante. Brava anche nel cedere perfino all’ironia, non della sorte ma sul con-sorte. Ironia, sì, che i più definiscono pazzia. Ma che per lei rappresenta il massimo disprezzo, la più grande, la vera rivincita su quest’uomo mediocre, di cui è follemente innamorata, e su se stessa.
E se Medea è forte e volitiva, Giasone è l’ottusa ombra di se stesso, appesantito in un’interpretazione a tratti stanca e stereotipata. Le melodie, intonate a cappella dall’unica voce che rappresenta il coro, fanno scendere un velo di pace struggente sulla vicenda.
E le stelle restano mute, insieme agli spettatori attenti, di fronte a questo dramma antico che trafigge e travalica il tempo.
Marco Melluso per malacopia
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