Segui me e ti perderai, è facile, non lo saprai mai. Io sono MadreVertigine, l’inquieta solitudine.
Ammutolito, ti riconosco. Una melodia curata, orecchiabile, come se fossi nata per restarmi in testa. Non cercata, non pensata, nata. Venuta al mondo con tutta la componente di caos che la nascita richiede.
Sei venuta al mondo in macchina, in una giornata qualunque. Non perché non si facesse in tempo, non perché avessi fretta, ma perché era ora. Il sole picchiava sul parabrezza mentre tornavo dall’università e io ti vomitavo estatico. Fu la liberazione, il mantra, il mandala, la litania, l’esorcismo. Forse la mia guerra interna era finita da tempo, ma mi servivi tu, per chiudere il cerchio, per sigillare l’avello, perché seppellire era la cosa che facevo meglio. Ti chiusi nella memoria del mio cellulare ma ti cantai, cento, mille volte. Ero la tua chiave di volta e tu la mia.
Non ti sentivo da anni, bastarda. Pensavo di averti persa di vista, come una vecchia conoscenza, come del resto capita nella vita. Ma io e te ci conosciamo da tanto, del resto. Ero un ragazzino spaventato da quello che sarebbe diventato. Mi verrebbe quasi da chiederti come stai, che cosa hai fatto negli ultimi anni, se ti sei data pace, tu. Io sì, eccome. Ho imparato che bisogna essere fieri. Non posso dire che conoscerti non abbia lasciato qualche strascico, ma cerco di fare quello che posso. D’altronde il clown è una maschera triste.
Ti ricordi quando mi bloccavi nel letto, incapace di prendere sonno, paralizzato? Non in senso letterale, io mi muovevo eccome: come se l’abbondare, il correre, l’aggiungere fossero la soluzione, la distrazione. Ecco, ero cristallizzato, per capire meglio. Come se tutto fosse li, ben delimitato, ovattato. Come se la linea non potesse essere varcata, come se mi fosse permessa solo una vita azzoppata.
A volte è così che mi sento. Azzoppato. Come se non contasse la mia voglia di correre, come se non contasse quanto sono preparato. Io corro a metà.
Mi chiami senza voce, io sempre lì per te, mi odi e mi veneri, sono la linfa dei tuoi perché.
Quanto ti ho nutrito, grassa puttana. E più mangiavi e più mangiavo. Mi sei stata vicina, morbosa, viscida, manipolatrice. Come solo io so fare, come solo io ti ho insegnato a farmi. Ci siamo annusati, ci siamo percepiti, parlati, penetrati. Nel buio di quella stanza, sai che aspettavo te, vorace creatura.
Sono pensiero rapido, lo sono sempre stato. È la mia forza, la mia qualità migliore. Ti ho voluta così, un pensiero che arriva, urla, ti soggioga, ti travolge come un fulmine, che ti rincorre avido, ti calpesta, ti lacera, che comprime il tuo spazio, che dilata il tuo tempo.
Materna come neve, scendi, silenziosa mi abbracci. Ovattato mi coccoli, gelida come una mano d’inverno. Mia Domina, siamo io e te. Come deve essere, io e te. Testimoni non ne hai mai avuti. Ed è quello, il tuo punto debole. Annusi il mio tormento, lampi di luce guidano la tua fame implacabile di paura e sgomento.
Ti aspetto qui al buio, mia amata creatura. Ma non stavolta, stavolta non mi avrai.
Francesco Bersellini
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