Accade ogni anno, ogni ottavo giorno di Marzo, che il morbido fiore della mimosa acquisisce valore come simbolo di delicatezza e splendore, e diventa lo stendardo giallo e inebriante di ogni donna libera o prigioniera.
Celebrazione e non festa, di una lotta vinta in parte, in un tempo che sparge i suoi luoghi nella civilizzazione in cui la parola “uguaglianza” è il cartello di benvenuto colorato di rosa e sorretto da leggi e consuetudini acquisite. Sradicare congetture basate sul dominio e sulla disuguaglianza di genere è un percorso che nasce in un tempo immemore, da volti femminili sconosciuti e ricoperti di silenzi, sguardi gravidi di coloro che sarebbero state le Giovanna d’Arco, poi le suffragette e, infine, le combattenti vestite da casalinghe o da parlamentari che ancora oggi trascinano un presente non staccato dal cordone ombelicale del passato, per scagliarsi contro i burqa invisibili di mondi celati.
Se è certo che una donna non si tocca neanche con un fiore, è altrettanto vero che un fiore può accarezzare una donna con un gesto d’amore il cui profumo non potrà essere eguagliato da costosi gioielli di diamanti. Il fiore della mimosa vive per poco tempo all’anno ma conserva la sua fragilità seppur scalfito dalle intemperie invernali, guadagnandosi il primato di forza prima di appassire.
Mimosa, come mamma e come moglie, sono parole figlie di una stessa lettera e unite da una fragranza che non ha il sapore di infibulazione, di sottomissione, di violenza sul sesso definito “debole”, per le fattezze fisiche non scolpite da madre natura né da matrigna palestra. È la fragilità interiore ad uscir fuori dal guscio degli pseudonimi infrangendo qualsiasi altro appellativo attraverso la preziosità e la tutela delle custodi delle pareti della vita.
Donne che vestono esistenze diverse in luoghi disparati, accomunate dal presente ma divise da mondi rovesciati. Quando la metà del pianeta dorme su polvere e disuguaglianza, l’altra metà, la mela civilizzata contemporanea, ricorda ad ogni donna che è “libera”, come canta Anna Tatangelo, ed esalta la “femmina bella”come intona Marcella.
Ed è proprio dalla scatola mediatica che, in questo giorno di celebrazione, il tripudio della donna libera, madre in carriera e divoratrice di pubblico, viene messo in risalto attraverso l’unica lotta che non produce vittime né orrori: la battaglia dell’audience. Una sordida guerra fredda vista dagli spettatori sui propri divani come fossero gli spalti di un’arena, in cui il gusto popolare determina il lancio di uova o mimose, accomunati dal colore giallo ma da destini diversi. La tv commerciale mantiene incollati i telespettatori per un pomeriggio intero in attesa dell’intervista a Loredana Lecciso nel salotto di Barbarella, mentre, l’altra fazione, casa Rai, ha in serbo l’intervista a Madonna realizzata da Fazio precedentemente, tanto da mantenere incollati allo schermo schiere di omosessuali come se fosse la finale del campionato mondiale di calcio per i tifosi eterosessuali.
È lo scontro tra Loredana Lecciso, regina italiana del gossip familiare e dei balletti trash, e Veronica Ciccone, regina e icona mondiale della musica pop. Un conflitto ad armi impari, in cui la povera Loredana, con annessa gemella, prova a ballare la pizzica dopo una chiacchierata sull’annoso teatrino Albano-Romina/la Lecciso, tra un’alzata di gonna e l’irrefrenabile smania di toccarsi i capelli. È l’immagine italiana di quella categoria di donne totally blonde da amare per la capacita di far televisione senza arte, senza capacità comunicative né linguaggio forbito, regalando siparietti spassosi di un trash televisivo che ritrae uno spaccato di spensieratezza fra il caso Scazzi e il caso Ragusa.
E se la mano dell’uomo ha posto orribilmente fine alla vita di alcuni fiori, il destino di altri ha permesso che sbocciassero sull’onda della comunicazione e del successo, la cui linfa è stata alimentata dal sudore dell’arte e del lavoro. Madonna, il cui nome d’arte racchiude nelle proprie lettere la parola “donna”, rappresenta la divulgazione della libertà di espressione senza generi, etnie o religioni, in un mondo in cui le note musicali sono le palle dei cannoni idealistici lanciate oltre le crisi economiche e le stragi.
La diva incarna l’immagine iconica di quella categoria di donne che vivono la libertà seppur portando con sé i segni dei martiri vissuti, attraverso i bracciali con ciondoli a forma di croci, simboli di rinascita dopo le avversità.
Madonna, omaggiata da un enorme fascio di mimose, lascia lo studio diretta verso altre mete, su sentieri e strade immaginarie in cui tutte le donne sono dei fiori, e gli uomini i loro steli forti e senza spine.
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