GIULIA SENIGAGLIA
E se vale la pena rischiare, io mi gioco anche l’ultimo frammento di cuore Ernesto Che Guevara De La Serna Occhi curiosi e penetranti, mai invadenti, labbra spesso vermiglie che accompagnano lunghi capelli scuri: Giulia è italiana, ma i tratti le si sono cesellati addosso in Medio Oriente. Una delle cose che io stessa ricordo con maggior stupore della mia permanenza negli Emirati non è il lusso, non è la grandezza ossessiva che si riversa convulsa in ogni angolo, ma è la sabbia del deserto, la prima volta che ci ho infilato i piedi dentro; la nostra guida, appena scesi dalla macchina, mi consigliò di togliere le scarpe “Perchè il deserto è curativo”. Affondare, per poi comprendere e guarirsi: mantra. Giulia Senigaglia è figlia di una tradizionale famiglia veneta, matriarcale ma con quella devozione verso il padre di cui solo le figlie femmine sono capaci, studia fuori sede e, come ogni ragazza alla scoperta della propria porzione di mondo oltre lo steccato di casa, si innamora. Da qui, Giulia, inizia a creare ponti, dentro e fuori la propria vita. Il primo è con Anwar, uomo visceralmente arabo ma per metà italiano. La sua relazione è quella di tante donne che hanno il coraggio di spostare il proprio cuore oltre un tracciato geografico, è un amore che si adegua alle lontananze chilometriche colmandole con percorsi emotivi quasi sempre contorti ma eccezionalmente intensi: scegliersi ferocemente mettendo a tacere le sirene della facilità, della comodità, per tornare a tessere la propria tela, con le trame della pazienza sull’ordito della tenacia. Il secondo ponte è quello che getta come donna. Quando la maggior parte di noi decide se il pantalone sia meglio a vita bassa, anche se forse quella alta è più bon ton, Giulia affronta i propri lutti: a proposito della morte prematura del proprio padre, mi racconta che “Ci sono tante cose che uniscono le persone. Io credo che il dolore sia più totalizzante della felicità.” Affondare, per poi comprendere, di nuovo: Anwar è ancora l’uomo che le sta affianco e che la condivisione, silenziosa e lancinante, di quella sofferenza altrimenti muta renderà il proprio fianco, la propria costola, in una nuova, personalissima, Genesi. Il vuoto che segue lo colma con l’impegno: dedica al padre la tesi di laurea sulla Good Governance nello Yemen- dove si occuperà di donne e microcredito- e a se stessa un calice alzato sotto cieli diversi. Madrid, Inghilterra, Yemen, di nuovo: molti posti, molte storie, il solito cuore che batte sotto i granelli sottili del deserto. Comprendere per poi spiegare e spiegarsi. Il 2005 è per Giulia l’anno del passaggio dal Bildungsroman all’epica come genere letterario: da figlia diventa moglie, in attesa di essere madre. Essere regine, a volte, può significare dover abbandonare la propria Itaca non per farvi ritorno ma per costruire altrove la propria reggia; essere donne significa saperlo fare senza rimpianti, perché la tua casa non è dove sono delle mura ma solo dove sono le braccia del tuo uomo. Da questo momento in poi i ponti costruiti da Giulia nel corso degli anni diventano la cifra costitutiva della sua nuova vita, sia negli aspetti privati che in quelli pubblici. Una donna occidentale che conosce profondamente il mondo arabo racconta una storia di integrazione e di opportunità che la gratifica come donna, come professionista e come moglie. “Esiste una spiegazione nel Corano sul ruolo della donna e dell’uomo in una relazione. Si dice che l’uomo e la donna non debbano competere tra di loro ma completarsi. Ed io credo che sia proprio questa la nostra forza”: Giulia parla della sua famiglia, ma è con lo stesso spirito di comprensione e di cooperazione che ogni giorno, nella Moschea di Jumeirah, spiega “Cultura e religione a chi ne vuole sapere di più e abbattere i tanti, troppi, pregiudizi, che i mezzi di comunicazione e l’ignoranza hanno alimentato”. In un posto come Dubai, dove il sole dilata il tempo e gli occhi bistrati di kajal che ti sorprendono dal niqab ti invitano a costruire nuovi paradigmi lontani dai canoni occidentali, Giulia ha fondato il proprio metro quadro di felicità: “Credo di non essere mai passata per l’occidentale che va all’estero a esportare pillole di civiltà. Mi hanno sempre vista come un’occidentale che era in fondo anche araba e capiva i loro punti di vista e le loro reticenze”. La felicità è quasi sempre una questione di come si gestisce la normalità: niente privilegi acquisiti, niente disagi capricciosi, to be real. Le chiedo quale sia la sua “corona”: “Non scorderò mai il giorno in cui mi chiamarono a fare uno speech a una conferenza sull’AIDS organizzata per soli poliziotti. Io, donna e occidentale, che parlavo con loro di una malattia sessualmente trasmissibile. Ho esordito con una battuta, mi sono fatta forza e ho risposto a delle domande al limite del tollerabile. La targa di merito della Polizia di Dubai che mi è arrivata a casa una settimana dopo è ancora sulla scrivania del mio studio.” Tra Oriente e Occidente, da qualche parte a metà strada, c’è anche Giulia: tra tante sponsorizzate fughe di soli cervelli, ogni tanto si vince scegliendo anche il cuore. Non fuggendo, ma camminando insieme. Martina Del Castello per malacopia Illustrazione di Florian Contegreco
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