Il terremoto è un evento complesso: parte da una scossa e genera una pluralità di disastri. Piccoli, grandi, più o meno gravi. Non sempre porta lutto nel senso stretto, ma molto spesso uccide alcune abitudini.
Generalmente tutti si preoccupano del sisma. Io che sono fatto a cazzo, mi concentro sulle scosse d’assestamento: il sisma quando arriva ti stende e se ne va, e tu ti ritrovi a fare i conti dei danni. Ma le scosse di assestamento, queste figlie di un dio minore, sono attese per definizione e quindi temute perché non si sa mai cosa provocheranno.
A volte quando vedo quegli scriteriati (io li considero così, poi magari loro sono sani e io no, ma ognuno la realtà se la taglia come gli pare) che si lanciano col paracadute per l’ebbrezza del vuoto –al primo lancio non lo sanno mica che cosa si prova ma al secondo sì! – penso che le cose che ti capitano tutt’a un tratto ti scombussolano; però anche gli eventi che si portano dietro mica scherzano.
Tanto per fare un esempio, un bel sisma emozionale mi si è scatenato in occasione di un viaggio in Guatemala. Già trovarsi in un Paese che per certi versi ti sbalza indietro di decenni fa un certo effetto. Poi ci si mettono anche gli autoctoni a darti il colpo di grazia.
Ora di pranzo. Un grande mercato di artigianato locale, anche perché il prodotto industriale prevede l’industria, e non è questo il caso.
C’è un posto coperto da tendoni, sotto il quale una cucina artigianale manda vapore e fumi di un fritto senza identità, che si mischiano a un sentore di lavato a straccio quanto basta per parere pulito.
Le Chèfesse sono autoctone di media età con prole adolescenziale in supporto. Le prime smazzano ai fornelli e ai coltelli, le seconde andirivengono trafficando dal deposito dei viveri e si scontrano come molecole impazzite ridendo, un po’ scioccamente, dei frequenti urti. I clienti sono seduti su una lunga panca di legno davanti a un tavolaccio unico, coperto da fogli di carta quadrettata che ispirano nell’ordine:
1) Tris
2) Parole crociate a schema libero
3) Battaglia navale
4) Il cesto della merenda in un picnic nella prateria con Laura Ingalls.
Io e due italiani siamo seduti in fila in attesa di capire come si può avere qualcosa da mangiare. Cerchiamo un menu, agitiamo le mani, emettiamo vocalizzi di richiamo.
Alla fine, portate da moto spontaneo, si avvicinano due indie, una donna e una ragazza di circa 16 anni: trecce nere, lentiggini, grembiule di cotone che sapeva di bucato fresco fino a poco prima di essere indossato. Ci elencano a memoria le portate: 4 in totale.
Scegliamo, ordiniamo, aspettiamo. È la ragazza a servirci: due polli fritti con tutta la pelle, che i due italiani mangiano con le mani, e per me una pannocchia arrostita. Dopo dieci minuti la donna e la ragazza si avvicinano al tavolo: la prima si presenta come la madre della ragazza e ci propone di portarla via come moglie.
Niente da fare, ovvio. Sorride, ringrazia e va via un po’ sconsolata in attesa del prossimo cliente di suo gradimento.
Ma a chi verrebbe in mente di portarti la figlia come fosse la busta della spesa e proporti di prenderla in carico ora e per sempre. Ma soprattutto che valore ha quella vita? E che valore hanno le nostre, che si agitano continuamente in cerca di una metà mancante. La madre, semplice e candida, ti offre la figlia, pronta all’uso e al sacrificio di un’esistenza in cambio di una vita che non è quella che vorrebbe; e forse neanche lo sa, a quell’età giovane, cosa vorrebbe. Però oggi molte persone che sanno quello che vogliono, di fronte a sacrifici anche piccoli si tirano indietro e si lasciano.
Sembra un assurdo ma è così; la loro è una prospettiva smontata e ricomposta e io non ne vedo neanche la logica. Proprio perché è fuori dal mio schema, non riesco ad inquadrarla. Allora mi lascio riassestare e cerco di accettare questo paradosso, buttando via tra le macerie l’esclusività del mio punto di vista.
E non faccio in tempo a rimettermi in moto che mi arriva l’onda lunga di un’altra botta che era passata in secondo piano: mi ritrovo a fare i conti con una serie di scosse in sequenza! Quella storia del pollo mangiato con le mani, strappando via i bocconi in maniera così primordiale, come se non fosse un gesto di gusto ma di sopravvivenza. Naturale, quanto primitivo e perfettamente connaturato all’essere umano: lega il senso del gusto e dell’olfatto al tatto.
Da quando hanno inventato le posate, il tatto si è perso, salvo per chi cucina. Ma allora io perché uso tutti i giorni le posate se mi viene più facile con le mani? Nei giorni seguenti faccio piccoli esperimenti, a volte aspetto che nessuno guardi e provo a non usare le posate. In effetti è più bello, mi dà più soddisfazione.
Però il mio assetto comportamentale è cementato in questo modo: mani pulite, posate, etc. Già mi ero dovuto riassestare dopo il sisma-Paese. Ora queste piccole scosse al mio establishment mi facevano riflettere sulla validità e differenza di certe umanità.
Nessuno dei miei al tavolo ha battuto ciglio. Neppure io, che, ok, non lo dovevo mangiare! ma a certe cose faccio attenzione. Una scossa d’assestamento alla loro vita, arrivata in silenzio. Un pollo fritto con tutta la pelle! Qui non si butta via niente perché non c’è la sovrabbondanza che ti permette di scegliere. Da entrambi i lati. Non ci sono supermercati che traboccano di prodotti che tanto scadranno e verranno buttati o riciclati, e a nessuno fa un baffo perché tanto mangiano tutti comunque, e anche troppo. Non ci sono, dall’altra parte, possibilità di sprechi, per un’economia spesso ancora familiare. E dunque tocca starci e incassare la scossa di assestamento: noi abbiamo troppo e non ce accorgiamo. O lo sappiamo, ma lo vogliamo ignorare.
La storia del pollo con la pelle mi ricorda anche che io in ogni istante mi concedo la libertà di scegliere esteticamente, diciamo così. Sbaglio io, o sono soltanto in un mondo diverso che mi lascia libero di essere come voglio? O forse mi ha forgiato così e neanche me ne sono accorto, non ho scelto nulla, ho seguito solo la strada che la consuetudine mi ha segnato? Poi comunque arriva la “scossetta” che ti sposta su una leggera deviazione.
Facciamo attenzione alle scosse di assestamento, dunque. Gli altri giù per terra.
Gianluca Atena per malacopia
Illustrazione di Francesco Cipolla
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