Lungo o rotondo, basso, alto, schiacciato. Che si tratti di pane bianco di farina di frumento, di pane nero o di sfarinati ottenuti da altri cereali, come la segale, il farro, orzo, di mais, di riso, il pane frequenta le tavole da quando, nel secolo II a.C., la panificazione fu introdotta a Roma, da prigionieri provenienti dalle regioni macedoni, giunti come schiavi e riconvertiti in maestri fornai. I Romani costituirono quindi delle corporazioni, e definirono un insieme di regole per assicurare la sopravvivenza del fornaio: i panettieri non potevano cambiare attività e il loro mestiere doveva essere continuato dai figli maschi, o dai mariti delle figlie. Tanto importante al punto che “panem et circenses” sono le cose – dice Giovenale – irrinunciabili per il popolo Romano.
Pane, alimento base di tutte le culture, dalla remota antichità ad oggi. Il pane esprime un bisogno primordiale, un’ancestrale necessità che ha l’uomo di assicurarsi la sopravvivenza. Pane, dunque, nella storia millenaria dell’umanità, dove si fonde con profezie, gesti e tradizioni: segno di espressività religiosa e comunione per i cristiani, spezzare il pane è diventato un gesto di solidarietà universale. Il pane è fonte di storie, leggende e perfino superstizioni: un pane nascosto nella culla di un bimbo si riteneva tenesse distanti le malattie. E, ancora oggi, si dice che porti male tagliare un pane prima di infornarlo, o che non si debba rovesciarlo sottosopra.
E c’è chi ha perso la testa per il pane: a Maria Antonietta venne (erronenamente) attribuita da Rousseau la frase “Se (i sudditi) non hanno pane, che mangino brioches!”, battuta infelice che le avrebbe attirato l’odio dei francesi con conseguenze arci note! Quello che è vero è che il pane è una moneta più forte dei soldi, visto l’alto potere nutrizionale ad un costo generalmente molto basso.
Il pane, in epoca moderna, è diventato in qualche modo protagonista anche al cinema: Pane amore e.. (Dino Risi, 1955), l’intramontabile Marcellino pane e vino (Ladislao Vajda, 1955), Pane e Tulipani (Silvio Soldini, 1999) e l’elenco potrebbe continuare… E ve la ricordate Giudizi universali, la canzone di Samuele Bersani: “Troppo cerebrale per capire che si può stare bene senza complicare il pane, ci si spalma sopra un bel giretto di parole vuote ma doppiate”. Ebbene, il concetto del “complicare il pane” fa al caso nostro.
Avendo tenuto corsi di cucina, mi è capitato spesso di imbattermi nella prima, diabolica domanda… Facciamo anche il pane? Come se “fare il pane” fosse una cosa difficilissima, da iniziati alla sacra arte culinaria, come se io, panettieri e panificatori, cuochi e insegnanti condividessimo il segreto di una ricetta miracolosa che fa uscire il pane fragrante, perfetto, prodotto come per magia!
Ma esiste davvero? Intendo: c’è una ricetta infallibile, semplice, pratica, assolutamente economica e quasi miracolosa? Per così dire, magica? Forse sì, e la sua magia si perpetua da oltre 6000 anni! Quale magia? Semplice: il tempo.
Ed ecco quindi il vero segreto del pane: lasciare che il tempo faccia tutto il lavoro. Perfino nella industria dei nostri giorni, parlare di innovazione nella panificazione suona anacronistico, addirittura assurdo. Grazie a Louis Pasteur, che nel 1859 regalò all’industria la produzione standardizzata del lievito, con i bruciatori a gas e le macchine impastatrici si ottenne una produzione repricabile, veloce ed economica. Ma fino ad allora non c’erano stati cambiamenti significativi o innovazioni da oltre seimila anni. Perché?! La semplicità disarmante nella produzione del vero e semplice pane quotidiano consisteva nel farlo col minimo sforzo. Anzi, nessun impasto, niente energia, bastavano 24 ore per ottenere un risultato apprezzabile. Pazzesco!
Il tempo, dunque, fa tutto il lavoro. E con la punta di un cucchiaino di lievito. Basta infatti far fermentare un impasto, oserei dire primordiale, molto lentamente. Un impasto molto umido, colloso, con il quaranta per cento di contenuto in acqua. Talmente colloso da non riuscire a impastarlo con le mani. Bastare lavorarlo un minuto e lasciarlo coperto in una terrina, per diciotto lunghe ore. Una volta ottenuto l’impasto, va rovesciato su un piano con poca farina, lavorato trenta secondi (non è un errore di scrittura, avete letto bene: bastano trenta secondi!), per dare al pane la forma desiderata. E non abbiate timore di abbandonarlo a se stesso per altre due ore, di pura lievitazione: nessuno vi verrà a mettere le manette come se abbandonaste il vostro cane in autostrada! Naturalmente, poi va infornato e… mangiato. Fine della storia!
Ma se più di seimila anni sono trascorsi da quando i primi pani sono venuti alla luce, come mai ci siamo impegnati così tanto complicare, a nascondere, coprire il segreto dei segreti?
Dimenticavo: impastare per decine di minuti per costringere le molecole del glutine ad allinearsi, equivale ad utilizzare una percentuale alta di acqua ed aspettare che sia il tempo a fare tutto il lavoro, regalando alle molecole la stessa mobilità. Tecnica e arte, insomma, perché a fronte di ingredienti come farina, acqua sale e lievito, la variabile umana li trasforma in un’arte bianca, dove molte cose non sono cambiate, e a cui perfino l’industria non può supplire. Provare per credere.
Gianluca Nezzi per malacopia
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