Succede qualcosa: Una specie di Alaska di Harold Pinter nell’interpretazione di Sara Bertelà al Teatro dell’Orologio di Roma.
Scrivere e ri-scrivere in seconda istanza di uno spettacolo può essere un bene o un male. Sia per lo spettacolo in sé che per chi si accinge a far una cronaca teatrale di quello stesso spettacolo. In questione è uno spettacolo cult, in giro da svariati anni e riproposto ancora una volta e solo grazie al coraggio e alla caparbia del produttore Angelo Giocobbe. Visto lo scorso anno in un contesto più teatrale, lo ritroviamo per la ri-apertura della nuova stagione teatrale del Teatro dell’Orologio sotto la direzione artistica di Fabio Morgan, in uno spazio off che ben si addice alla natura intima del testo. Una specie di Alaska mostra di avere sempre più forza anche in un allestimento più austero, che consente di gustarne una volta di più tutte le sfumature più intime e delicate.
Si entra al buio in un museo delle cere, dove sono già posizionati i due protagonisti, sfalsati, come fantasmi al centro del palcoscenico: Sara Bertelà e Alessandro Accinni. Immobili, una a letto con sguardo fisso, l’altro seduto accanto e veglia su di lei. Illuminati solo da una pallida luce, sembrano maschere immortali di cui si intravedono solo i contorni del volto. Ma basta aspettare perché quei corpi ri-prendona vita, quello sguardo ri-prenda fulgore.
‘Succede qualcosa’, il miracolo avviene. Un fiume di parole invade tutti i sensi fino a toccare le corde più profonde della commozione.
Il testo di Harold Pinter del 1982, si ispira dichiaratamente alle teorie di Olivier Sacks, così ben descritte in Risvegli, il saggio pubblicato in Italia da Adelphi, in cui il neurologo inglese tratta alcuni casi di encefalite letargica che colpì all’incirca cinquemila persone tra il 1917 e il 1927. Una sorta di sospensione temporale in cui queste persone si ritrovarono, che durò per anni. Grazie alla cura di Olivier Sacks, la famosa L-Dopa, somministrata un po’ per volta e in dosi sempre più cospicue, qualcuno ne è venuto fuori.
Qui viene narrato il caso clinico di Deborah, che mentre ripone un vaso di fiori, a dodici anni, si blocca ed entra in uno stato catatonico che durerà ventinove anni. Lo spettacolo inizia proprio laddove il suo sonno termina. Tutta una vita passa nella ri-apertura di quegli occhi. Tutto è già trascorso e siamo già ben oltre la maturità, un viale del tramonto per tutti quelli che le sono stati accanto e che sono invecchiati con lei, quasi a condividerne quella catalessi, quell’immobilità.
I due che più le sono stati vicini son il suo medico, che nel frattempo è diventato suo cognato, e l’incauta sorella. ‘Bisogna dormire per restare giovani e belle. Proprio come ho fatto io’ e c’è spazio anche per qualche risata di scherno, per interrompere l’atmosfera sospesa e a volte irreale ma, proprio per questo, così palpitante e vera.
Sara Bertelà, recentemente insignita del Premio della Critica Teatrale ANCT 2014 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro) è l’interprete di Deborah. Fa quel che vuole del suo personaggio, lo rivolta come un calzino, ci entra e ci esce con una leggerezza impagabile, si impone al personaggio, manipola le parole e le incarna in un misto di vissuto quotidiano e di stupore allibito al tempo. Se proprio si vuole teorizzare, agisce interpretativamente su due livelli: uno in cui, stupefatta, prende coscienza del suo risveglio e l’altro in cui è colei che era al tempo del black-out. Questi due piani si intersecano spesso ma altrettanto spesso si distaccano distanziandosi fra di loro. Un abbraccio che si trasforma in una danza.
E fra questi due piani si inseriscono con discrezione gli altri due interpreti. Alessandro Accinni, il medico, stupito quanto attonito, automa sensibile e premuroso, capelli sbiaditi dal tempo. Voce che viene dritta da dove palpita più sangue, tono tagliente e sicuro, accarezza la sua paziente con uno sguardo fisso e determinato, di chi sa che sta sperimentando il suo ultimo tentativo per salvarle la vita. Insieme a lui, completa il terzetto d’eccezione una bravissima e compita Orietta Notari: Pauline, la sorella che più è stata vicina a Deborah, che insieme con la sorella Estelle faceva parte del terzetto dei ‘bei tristi fiori’, come le chiamavano da ragazzine.
Ma Harold Pinter è maestro nel non chiudere il finale. Saranno gli stessi familiari a rimettere a letto la loro cara assistita o sarà lei stessa a rifiutare la realtà rintanandosi di nuovo fra le coperte e inventandosi una nuova realtà, una terza via d’uscita a quella che appare impraticabile e irriconoscibile?
Lo spettacolo nella meticolosità e precisione, con particolari infinitesimali che risaltano nel buio dei ricordi, un memoriale di sentimenti congelati, è a cura di Valerio Binasco.
Mario Di Calo per malacopia
Una specie di Alaska di Harold Pinter
con Sara Bertelà, Alessandro Accinni e Orietta Notari
progetto a cura di Valerio Binasco
produzione Nidodiragno
Teatro dell’Orologio di Roma- Sala Moretti – dall’8 al 26 ottobre 2014
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